sabato 6 febbraio 2010

"Uriana" poema in latino del Prof. Giuseppe D'Amico.

Il nostro concittadino Prof. Giuseppe D'Amico, raffinato poeta in lingua latina, ha pubblicato nella lingua dei Cesari "Uriana", forse ispirandosi alla leggenda di "Oria fumosa" .
Inserito in "Fragmenta Parva" un agile volumetto dal sottotitolo "Oria, -Anno particolare-, 1996 - XXV ANNIVERSARIO DELLA ISTITUZIONE DEL LICEO SCIENTIFICO IN ORIA", "Uriana" non parla di nebbia ma di fumo nero sui tetti di Oria ("vapor ater super tecta Uriae"). Un fumo nero solcato da lunghi gemiti lugubri che errano dovunque per le vie della città e scuotono gli animi ("longi gemitus lugubres vagantur ubique / per urbis vias percutiuntque animum"). Sono i gemiti di una madre che urla infelicemente dal sepolcro ("sunt matris gemitus clamantes male sepulcro"). Un componimento breve e intenso che prende per eleganza e calibrata musicalità.
Cliccare QUI per il testo originale in latino.
URIANA
Il cielo tempestoso, brutto, gelido incalza e avvolge
l'intera città di fumosi vapori.
Le querce spoglie dell'antico castello oritano si agitano
al soffio dei venti: lontano volano le ultime foglie
come uccelli neri dello Stige e del lento fiume Cocito


o larve di fantasmi, corpi senza vita.
Nell 'aria la morte pallida sembra volteggiare con le sue
mani adunche come, svolazzando nella notte,una civetta,
cara alla luna,
e lunghi gemiti lugubri errano dovunque per le vie
della città e scuotono gli animi.
Sono i gemiti di una madre che urla
infelicemente dal sepolcro,
sono i gemiti di Uriana, la piccola bambina che i soldati
di Minosse rapirono ed uccisero molti secoli fà.
Fu questo un orribile crimine!
Così un famoso autore di storia riferisce questo misfatto,
che ancora oggi incombe sulla città di Oria:
Molto tempo addietro la flotta di Minosse attraversava
silenziosa il mare, dirigendosi verso i lidi pugliesi,
attraverso le onde, quando il vento Africo
sconvolse il mare con una tempesta,
tanto da toccare le stelle con gli alti marosi.
Tutti i naviganti sono colpiti così da terrore e paura,
vedendosi davanti agli occhi una morte tanto orribile.
Ecco, infatti, una montagna improvvisa, alta, a picco,
di acqua precipita e spinge le navi sconnesse sugli scogli
di un lido sconosciuto, prominente ed irto.
Dovunque è Morte in mezzo al mare!
A molti uomini, lacrimando, senza più salvezza,
la vita viene meno.

Moltissimi naufraghi nuotano, tuttavia, nel vasto gorgo
marino, cercando con sforzi sovrumani il lido.
Feriti e stanchi raggiungono la costa sconosciuta,
temendo il fato gravido di terrore!
La notte nera, intanto, è scacciata dal cielo tempestoso
ed Iride, radiante sul mare divenuto tranquillo, appare
ai naviganti, messaggera dolcissima di Giove,
sorgendo alta con i suoi colori
giallo-arancione, per indicare loro la nuova patria.
Le navi, infatti, spezzate, nel mare tranquillo giacciono
senza gli alti alberi, i remi e le vele, e moltissimi uomini,
con i corpi rigonfi, fluttuano qua e là e con lentezza
ondosa presso i sassi e la sabbia marina:
Lacrime versano i sopravvissuti!

Una terra, tuttavia, feconda di ulivi e di ombreggianti
viti e di alberi appare loro: non vi abita nessuno!
Tutti allora salutano le ninfe del posto
e gli dei, non più miseri avanzi del mare.
Il re cretese, allora, invia messaggeri scelti
perché attentamente esplorino chi viva
e coltivi i luoghi interni: se uomini pietosi
e umani o belve feroci o tremendi uccellacci.
Il sole, ormai, cadeva lontano, illuminando
con i raggi l'orizzonte, quando i messaggeri ritornano
e molto felicemente informano il re premuroso che vicina
giace una larga regione, ricca di alberi fruttuosi,
di acque cristalline, di selve che coprono basse colline
ed è, inoltre, libera,
non abitandovi uomini.
I naviganti raccolgono ciò che rimane delle navi
e degli attrezzi e si dirigono verso le colline,
sono questi, finalmente, i luoghi dove sarà fondata
la città insigne e famosa dei Cretesi!
Sarà questa la nuova patria per i Lari
e per i sopravvissuti!
Simili alle api che qua e là con dolce ronzio volano presso
i favi dai fiori variopinti e preparano il dolce miele, rorido
alimento degli dei, così tutti gli uomini alzano macigni
e sassi, mentre i fanciulli cantano antichi canti sacri
e le fanciulle pregano i numi
con voce supplichevole.
II Re, nel frattempo, designa la cinta muraria
con un piccolo solco e tutti i costruttori con grande
maestria edificano la rocca, le case e i templi degli dei,
mentre i giovani forti conducono strumenti
bellici o tendono archi inflessibili o scagliano con la forza
delle braccia e con sforzi innumeri duri giavellotti.

Avevano già cinto con mura altissime e solide la città
minoica a doppia cintura e stavano per costruire
il fossato e un vallo adeguato, quando ecco
il sole si nasconde davanti agli occhi.
Il cielo è, subito, sconvolto da un tremendo boato,
i venti spingono giù dalle nubi grigiastre acque gelide
miste a pesante grandine.
Le mura precipitano giù: Tutti i massi
giacciono per terra.
Ogni cosa è disperata! Gli uomini sembrano morire.
Piangendo con voce supplichevole e pregando, invocano
i numi avversi del luogo e fanno numerosi sacrifici.
Riedificano, allora, nuovamente le mura!
Il cielo è nuovamente percorso da un altro immenso
boato; i venti calano giù dal cielo grigio e abbattono
nuovamente gli alti macigni della città come un campo
di grano piegato dai venti e dalle frequenti piogge!
Fortemente turbato il Re e il popolo interroga,
per questo, l’oracolo di Febo.
Febo pronuncia un triste responso:
si devono espiare i terribili misfatti del Minotauro, si
devono espiare la prigionia e la morte di Icaro, si devono
espiare l'alta fuga di Dedalo dal Labirinto a Gamico
e le guerre e la morte di Minosse.
Dopo aver fatto il dovuto sacrificio umano,
occorre impastare la malta con il sangue.
Solo così le mura di Oria rimarranno solide in eterno!

La luna pallida invita al sonno gli stanchi viventi,
illuminando con la sua luce attraverso le tenebre i boschi,
i campi e i pascoli.
Il Re di Oria, tacito, non riposa per il grave dolore:
"È lui che dovrà sacrificare la vittima umana!"
Non riposano anche i poveri cittadini oritani,
sfortunati genitori di bambine e bambini, non riposa
neppure la sventuratissima vedova, madre attenta
e provvida della piccola Uriana.
Al primo albeggiare, tuttavia, mentre il sole illumina
le terre, lasciando le stalle color arancione di Titone,
la povera madre, di nascosto, lascia la figlia dormiente,
dirigendosi nei campi rigogliosi e ricchi di frutti,
per portare con sé cicorie selvatiche ed erbe agresti.
Erra per i campi ma con il cuore trepidante,
mentre i caldi raggi del sole avvolgono ogni luogo:
i colli esposti al sole, i boschi, la pianura,
le mura crollate della città e le opere cadute dovunque.
Al mattino, Uriana si lava il faccino senza timore,
aspettando la madre con il miele e le castagne.
Dopo un pò esce fuori per vedere un'amica,
incurante del pericolo, come agnellino vicinissimo
al lupo nascosto nelle tane del bosco.

La notano subito i soldati crudeli, l'adescano
con piacevoli carezze; poi, velocemente la conducono
sulla rocca del re ontano e la uccidono, ostia umana
per offerte di morte.
Prima di mezzogiorno, trepidante la madre, amorosa,
giunge finalmente a casa ma non trova Uriana!
La chiama per nome, pregando gli dei,
e la cerca in ogni luogo: ogni luogo risponde
ciò che il suo animo sospetta...!
Pazza, allora, la madre, come una Baccante, storce
gli occhi, adirata, maledicendo la città, il re crudele,
i responsi e tutti gli abitanti.
Bramosa di togliersi la luce vitale, sale, quindi,
sulla rocca, furibonda, e con un pugnale lucente
colpisce, ahimé, il petto, fortemente anelante.
Quando, morendo, vede con gli occhi ormai vaganti
nel vuoto la nemica città, gemendo,
dice queste orrende parole: "Giammai il popolo e la città
abbiano pace e giusti trattati nei secoli;
sempre e dovunque il mio furore vendicatore e l'ira
del mio animo siano presenti come nero fumo aggirantesi
sui tetti della città...
Questo io chiedo ai Mani infernali".
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