martedì 1 novembre 2011

ORIA - UN DOCUMENTO BELLISSIMO ED APPASSIONANTE SUL CASTELLO DI ORIA SCRITTO NEL 1904.

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Sempre grazie al materiale inviatomi dall'arch. Alessio Carbone pubblico un'articolo tratto da "Rivista Storica Salentina " del 1904, a firma di Pietro Palumbo Regio Ispettore dei monumenti e scavi.

[Oria dalla banda della Stazione ferroviaria si trasforma. Le bianche casette, abbandonando quelle del monte, raggomitolate all'ombra della cattedrale, si distendono al piano, sul versante di Francavilla e soprattutto verso Brindisi nel borgo detto della Lama con lavorio vertiginoso e pertinaca. Esse scintillano tra il verde dei boschetti di fichi e di ulivi, e nella loro uniforme e simpatica linea architettonica mandano sprazzi di una nuova vita che meraviglia. Salimmo le viuzze strette e a gomiti dell'antica città medioevale e dopo aver data un'occhiata di rimpianto al largo dei Celestini vedovato dai portici superbi di Francesco Milizia, entrammo nel Castello. Colà indarno si cercherebbe il ponte levatoio, la piccola porta falsa, il corpo di guardia, la via coperta che girava il castello, sono confuse o immedesimante nell'ampio Convento silenzioso e malinconico nè se ne trova traccia.
Invece penetrati in angusto recinto che vaneggia lungo i tre bastioni, si entra per una piccola porta nella piazza d'anni della fortezza.
E' un bel largo di ben centotre metri per settantotto ora messo a sementabile, che non si sa precisamente quando venne mattonato. Ha forma quasi di una galera veneziana, con a poppa, incasellato il torrione, la torre del Salto e del Cavaliere. A prua sorge quella quadrata dello Sperone, II fianco della nave che risponde sulla città è difeso da un muro terrapienato con feritoie e cannoniere oramai distrutte; sull'altro che risponde alla campagna si vedono edificati i quartieri militari, sui quali si levavano le stanze per il feudatario. Dando un'occhiata attorno, dal centro della piazza, non si scoprono che rovine e reminescenze. Imperocché a dritta, entrando, si osserva che la porta è praticata sotto una bertesca già mezzo demolita, la quale forse serviva di passaggio tra la Torre del Cavaliere e quella del Salto, Nello sgretolamento s'affaccia dentro un filo di beccatelli i quali dimostrano che prima delle costruzioni delle Torri, quivi ci fosse un fortilizio e una difesa dell' antico Castello forse dei tempi greci o Normanni. Più in là da canto, si scende in un tempietto bizantino, che dicono dei Santi Crisanto e Dario, costruito con pietrosi romani. La cinta sulla città ha doppio filo. L'interno sembra costruito nel sec. XVI. L'esterno che si digrada alle spalle del monte, ora messo a giardino ed a serra di fiori da Giacomo Salerno Mele, ha spezzoni di vecchio muro, intramezzati da rammendi di costruzione più recente. Da questa banda Manfredi venne a rompicollo da Mesagne con la sua truppa per impadronirsi del castello. Ma la città aveva un giro di muraglie ben fortificate, ed altre ne sorgevano a secondo che il monte saliva. Sicché ben disse Iamsilla che come una linea di difesa veniva meno, ne sorgeva un'altra e rendeva impossibile l'approccio, La Torre dello Sperone che s'innalza a prua, ha tutta la faccia interna demolita dal ciclone. Da alcuni beccatelli ed archi che sono nel basamento sembra che sia stata edificata su una vecchia torre del mille. Sarebbe un innesto svevo su tronco saraceno. II passaggio che univa la torre dello Sperone all'abitazione del Capitano è anche demolita. Quest'abitazione abbraccia tutto il lato della campagna. Ha sotto stanzoni lunghi, dagli archi svevi, oscuri, che vaneggiano e si avvolticchiano in vie tortuose e forse s'incrociano, con la strada coperta descritta dal Pagano; però v'è aggiunto un avamposto, costruito più tardi, per rendere più ampia la terrazza sovrastante, sicché la costruzione sveva con le sue porte e coi suoi archi semiacuti è del tutto nascosta. Si è creduto fin qui che la lunga fuga delle stanze superiori fosse costruzione cinquecentista e per tale doveva ritenersi guardando le volte a spigolo e a spicchio e ai transennati, reticolati e a ghirigori delle loro finestre. Un'aria di signorilità vi spira nelle forme quadrate e larghe che abbandonano l'angusta severità militare dei primi tempi. Certo v'è qui impressa la mano sagace e geniale del Marchese Bonifacio, e peccato che questo bel monumento di cinque
camere sia crollato o stia per crollare addirittura dopo il disastro del ciclone. Ma anche qui la costruzione è sovrapposta. Basta constatarlo scendendo la grande scala, in un
brano di vecchia muraglia innestata nel nuovo, sulla quale spicca un motivo architettonico genialissimo di una finestra distrutta che ricorda i tempi svevi coi suoi fiori e colle sue volute.
Siamo entrati nel Torrione ad occidente, per una scala scoperta che gira la torre del cavaliere. Il corridoio che unisce le due opere militari è di carattere schiettamente svevo e perfettamente mantenuto. Ha occhi e saettiere che guardano la città e le campagne adiacenti di Francavilla e dalla banda interna della Piazza d'armi aveva finestre e specole parecchie. Ma l'indole, il tipo, la fisionomia sveva si riscontra nel maschio del Torrione il quale era compatito a tre piani, con travature di passaggio, con camini, con trabocchetti, con arcate medioevali svelte e superbe. È una torre quadrata come quella di Copertino e di Leverano. Al di fuori ha forma scarpata e ripida sino a tre quarti di altezza rimanendovi al di sopra del toro un'angusta abitazione con finestre praticate là dove prima eran balestriere. Il movimento del fabbrico, specie da un angolo, rivela l'origine normanna, mentre la guardiola dell'angolo rispondente sull'atrio ha forma aragonese ciò che anche si desume dall'arma così bene inquartata coi gigli angioini e con la croce di Gerusalemme. Il fastigio è stato rovinato dal ciclone. Da uno di quei merli penzolò il cadavere di Tommaso da Oria, nemico di Manfredi. Addirittura angioine sono poi le torri del Cavaliere e del Salto modificate però secondo i tempi e le dominazioni, perché sulle terrazze di ambedue si veggono le cannoniere costruite dai francesi nel secolo XVI e le tracce delle palle spagnole: lanciate da Del Pace; che anzi quella del Salto ha un diadema a trafori di indole secentista. Riuscii tra merlo e merlo di dare uno sguardo al panorama circostante che è ammirevole, superbo.
Da un lato disteso sulla pianura il caseggiato di Francavilla con le sue cupole a mattoncini colorati, con i suoi campanili aguzzi, con le sue altane fiorite, più su il sasso biancheggiante dei cento truddi di Ceglie, poi San Vito e l'occhio si china su un arco immenso nel quale posano in boschetti di verdura Latiano, Mesagne, Erchie, Torre, Manduria.
Sul ballatoio di congiungimento, la Torre del Cavaliere, mostra uno stemma coronato che gli scrittori credettero fosse di Federico II. Ma guardato con maggiore critica e con minore passione di campanile, si è verificato essere l'arma dei Marchesi Imperiali i quali comprarono il feudo nel 1575, e lo tennero sino al 1782 ed avevano per arma di famiglia non un'aquila bicipite come ha stampato il Lombardi, ma un'aquila nera volta a sinistra con le ali aperte in campo d'oro tra due sbarre e cimata della corona marchesalc.( ) Forse la pia credenza derivò dal pensiero che anche l'arma di Federico II avesse un'aquila nera con le ali spiegate.
Ma si sarebbe dovuto riflettere che sull'aquila sveva è inquartato uno scudo a diverse sbarre scompartite in ire pigne, tre leoni rampanti con la croce gerosolimitana e al di sopra è cimato dalla corona imperiale a cupola. ( ) Dai ghirigori barocchi che attorniano lo scudo degli imperiali si suppone che lo stemma sia stato infisso nella seconda metà del sec.XVII, cioè quando il vassallaggio oritano era meno grave e i padroni più graziosi.
Questo che ho fugacemente accennato sarà, con maggiore competenza, riferito al Ministro Orlando dall'Ing. Avena, come colui che ha ficcato l'occhio nei segreti più riposti e ne ha rilevato le bellezze architettoniche ignote ad occhi profani. Se come sono sicuro, egli vorrà condirigere e sorvegliale i lavori, il Castello svevo risorgerà a novella vita.
E' quindi necessario che si salvi, come quello di Prato, quello di Copertino e gli altri sui quali s'irraggia l'arte di Nicola Pisano affratellala con la genialità sveva.
Questa volta non è soltanto la cittadinanza di Oria che lo reclama, ma l'Italia intera madre delle arti belle e gentili. Cosi scriveva Pietro Palumbo R. Ispettore dei monumenti e scavi, nell'agosto del 1904.]
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